Il 26 maggio 1828, in una sonnolenta Norimberga, compare all’improvviso una strana creatura di circa sedici anni che, guardandosi intorno con aria smarrita, porge allo stupito cittadino che per primo l’avvicina una lettera indirizzata a un capitano della locale guarnigione.
Alle domande che gli vengono rivolte il giovane sa opporre solo due frasi: «Voglio diventare cavaliere, come mio padre» e «Non so». Più tardi sorprenderà tutti scrivendo a caratteri decisi e leggibili il proprio nome: Kaspar Hauser.
Comincia così il libro che il consigliere di Corte d’appello Anselm von Feuerbach diede alle stampe nel 1832 a conclusione di un’appassionata indagine su un caso che sin dall’inizio aveva avvinto l’opinione pubblica dell’intero continente e che non cessa di suscitare interrogativi, come se vi fosse incastonato il segreto stesso dell’identità.
Chi è questo trovatello che non parla, non capisce, ha la selvatichezza innocente e incontaminata del primo essere della sua specie, e nondimeno di lì a qualche mese impara a esprimersi e a scrivere, dipinge, va a cavallo, e medita perfino la propria autobiografia? Un abilissimo impostore o addirittura un principe del Baden, vittima sacrificale di inconfessabili intrighi dinastici?
Per Feuerbach la seconda ipotesi diventa alla fine «certezza morale»: e gli studi più recenti, confermando tali conclusioni, suonano come postumo riconoscimento all’acribia del giudice.
Ma è alla compassione dell’uomo per «questa creatura mai vista al mondo» che dobbiamo la dolorosa intensità che spesso affiora dietro lo schermo di una scrittura dai lineamenti classici.